Il biglietto sbiadito è incorniciato con la locandina che tengo in camera ormai da anni.
E’ un affresco delirante e tenero
quello dipinto sul volto e nei gesti di Flavio Bucci che si veste di straziante
follia per raccontare lo sciagurato destino di Popriscin, il protagonista del
“Diario di un pazzo” di Gogol.
Sarà per colpa del suo impiego mediocre
ossia quello di temperare matite in ufficio, oppure di una vita senza l’amore
di Sophie, la figlia del suo datore di lavoro, se Popriscin oscilla tra
lucidità e delirio, affidando ai fogli di un diario le sue aspirazioni, le
paranoie ed i pensieri più reconditi fino ad annegare nella follia stessa,
invocando la figura materna sul finale.
Senza alcuna speranza o chance di
giungere al cuore dell’amata, oppure ad una posizione sociale dignitosa, Flavio/Popriscin si rivolge allo spettatore, lo guarda dritto negli occhi, fino
a bucare anima e cuore col suo linguaggio autentico, senza filtri, che solo un
pazzo potrebbe usare.
Ma è la sua dichiarazione d’amore al
mondo, quella pronunciata mentre rivolge lo sguardo verso il cielo dove una
luna paziente lo attende per custodire i suoi desideri, una luna troppo
incantevole per accogliere gli uomini, ma solo i sogni contenuti nelle pagine
di un diario, quello di un pazzo che si abbandona alla follia perché in un
mondo in cui le cose sono concepite solo per i poveri di spirito, non c’è più
posto per gli animi nobili ed i sognatori.
di Tania Croce
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