Mi trovo nella seconda casa di Michele
La Ginestra: Il Teatro Sette.
Nello spazio suggestivo e
rinnovato del Sette, l’autore, regista, presentatore e direttore artistico del
teatro che spegne 21 candeline il 20 settembre prossimo, ci racconta il
mestiere dell’attore.
Qual è stato l’episodio Off nella
tua carriera?
Il più Off che ho avuto è stato
un capodanno, dopo aver vinto Beato tra
le donne, stiamo parlando di più di vent’anni fa, in Puglia dovevo fare due
spettacoli. Andai con degli amici e il secondo spettacolo era dopo la
mezzanotte, quindi io arrivai in questo posto dove c’era gente che ballava in
modo scatenato e il dj mi presentò così: “E adesso c’è lui che ci fa uno
spettacolino”. Io ho cominciato coi pezzi più forti pensando che era inutile
fare del teatro. Cominciai coi pezzi più divertenti di cabaret. Iniziai dopo
quattro o cinque lisci, ho fatto: “Bene, bene così, c’è qualcuno che mi sente?
No, io direi buon anno a tutti” e uscì via incazzato come un picchio pensando
in quale situazione del cavolo mi trovassi. Io ricorderò questa cosa per tutta
la vita perché fu traumatica. Ci mandarono in un albergo improponibile che si
affacciava su uno sfasciacarrozze. Sembrava di stare su Scherzi a parte. Da
quel giorno decisi che non avrei più fatto serate ma che avrei fatto solo
teatro.
Quest’anno sarai impegnato come
regista qui al Sette in numerosi spettacoli, reciterai con Massimo Wertmuller e
Sergio Zecca, poi accompagnerai le ‘bisbetiche stremate’ al Golden e a maggio
sarai al Sistina per il secondo anno consecutivo con “E’ cosa buona e giusta”.
Il teatro è il luogo ideale per la
condivisione. Vuoi raccontarmi in che modo senti di essere l’artefice oltre al
promotore di tale condivisione, avendo scelto come slogan della stagione
2017/2018 la frase di Chaplin “Un giorno senza un sorriso è un giorno perso”?
Attraverso il mezzo teatrale
vorremo in qualche modo stimolare dei sorrisi. Il sorriso non è proprio una
risata, è un qualcosa di intermedio. Può sfociare in una risata, solitamente è
una predisposizione a un momento di serenità e d’allegria. Se c’è uno screzio e
tu vuoi far pace con qualcuno, se sorridi a risolvere la problematica nella
maggior parte dei casi. Noi vorremmo invitare al sorriso al divertimento però sempre
in modo intelligente, perché il sorriso non è una cosa sguaiata. Cerchiamo di
far portare a casa allo spettatore, una riflessione, uno stimolo al
ragionamento. Il teatro dovrebbe far sì che avvenga questo, che si smuova
qualcosa dentro, si crei anche una discussione. Non è che dobbiamo dare perle
di saggezza però cercare di ragionare su alcuni argomenti che sono attualissimi
e che secondo me vale la pena affrontare in modo spensierato e sdrammatizzando
tante situazioni, però poi se c’è da fare un urlo e dire: Ahó, c’è un problema e un problema serio serve e se lo facciamo da
un palcoscenico, forse qualcuno lo ascolta.
La condivisione in una società
individualista come questa, è necessaria e il teatro è il luogo ideale per la
condivisione perché lo spettatore assorbe le pure emozioni trasmesse
dall’attore. Questa è una grande missione da parte dell’attore soprattutto
oggi. Cosa senti di trasmettere in questo senso?
Io mi sento molto responsabile di
questa missione che in qualche modo dobbiamo portare avanti. Ci è stato donato
un talento specifico che si mette a disposizione degli altri e io penso che
questo talento di parlare al pubblico, comunicando sensazioni ed emozioni,
anche attraverso quel sorriso di cui parlavamo prima, penso che debba essere sfruttato,
deve produrre. Io sono affascinato dalla parabola dei talenti, secondo cui
quello a cui è stato dato dieci deve rendere per dieci, quello a cui è stato
dato cento deve rendere per cento. Mi piace l’idea di dover rendere conto di
ciò che mi è stato dato. Mi piacerebbe poter mantenere questo livello che
abbiamo raggiunto grazie all’esperienza, al sacrificio, grazie anche a tanti
errori. Mi piacerebbe sempre migliorare.
Quest’anno è una sfida enorme,
porto in scena “Come Cristo comanda” che è uno spettacolo completamente diverso
da quelli che ho fatto fino adesso. Lo faccio insieme a Massimo Wertmuller, un
collega che stimo e che adoro, è affidata la regia a Roberto Marafante con cui
abbiamo fatto tanti lavori insieme. Il testo è mio, mi piacerebbe affrontare
dei temi anche un po’ ‘cicciotti’. Questo spettacolo è un omaggio come stile
anche a Gigi Magni, Massimo è un rappresentante importante di una romanità
d’altri tempi e non quella sguaiata di oggi. E’ una romanità bella, poter dire
delle cose importanti attraverso una cadenza, che non è proprio un dialetto,
avvicina il popolo, secondo me è importante. E’ uno spettacolo piacevole
all’inizio ma che poi sfocia nel drammatico.
A chi ti sei ispirato per
scrivere questo testo?
Mi era venuto in mente di parlare
di un argomento che m’affascinava, quanto l’uomo Cristo potesse essere recepito
in quell’epoca come un qualcosa di diverso, ossia il figlio di Dio oppure era
un profeta, un giullare, un mago. Mi piaceva l’idea di entrare nell’epoca e
cercare di capire cosa potesse venir fuori da una evento così straordinario.
Perché quando noi viviamo in diretta gli eventi straordinari, non capiamo che
quell’evento è straordinario.
Vi aspetto il 20 settembre qui al
Sette. Ci sarà la conferenza stampa dove presenteremo gli spettacoli della
nuova stagione.
E sorrideremo insieme perché “un
giorno senza un sorriso è un giorno perso”.
Nessun commento:
Posta un commento